Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – 6
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
si che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E per nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei;
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero;
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Giacomo Leopardi
Note alla poesia
uno spron quasi mi punge: sono tormentato, punto da una continua insofferenza fastidiosa come un pungolo.
loco: tranquillità, pace.
E per nulla… pianto: tuttavia non desidero niente in particolare né posso dire di avere finora patito sofferenze o dolori. In un passo dello Zibaldone, infatti, il poeta afferma che la noia esclude la presenza del dolore o del male, essa è causata invece dalla vita “pienamente sentita, provata, conosciuta”.
noverar: contare.
di giogo in giogo: di monte in monte.
erra dal vero: si allontana dalla verità.
in qual forma… che sia: in qualunque aspetto, in qualunque condizione esistenziale per gli animali e per gli uomini.
dentro covile o cuna: nella stalla o nella culla.
Un commento alla poesia
In questo cantico si vengono esprimendo i temi più autentici della meditazione leopardiana sulla vita: essa è l’approdo poetico più alto della disincantata filosofia del poeta, della sua riflessione pacata ma dolorosa sulla vita e sulla morte, sul male di vivere, sulla noia, sulla malvagità della Natura. L’unica certezza che il poeta, per bocca dell’umile pastore, afferma di avere è che la vita è male e questo male è tutt’uno con l’esistenza, ma ancora peggiore del male è la noia.
La vita è descritta come una faticosa fuga verso la morte, come un’inutile affannarsi verso un precipizio; la vita non ha senso; niente, nell’universo, ha senso, perché questo è dominato da ferree leggi meccanicistiche.
Qui la forza polemica e dolorosa del Leopardi si acquieta in un canto allo stesso tempo dolente e pacato e, nonostante la freddezza e la serenità con cui il poeta esprime il suo pensiero, l’aver trasferito ad un pastore i profondi interrogativi sul dolore e sul significato dell’esistenza genera un’atmosfera in cui la riflessione è più serena per l’ingenuità, la semplicità, con cui il pastore interroga la giovinetta immortale.
Le amare, dolorose certezze del poeta vengono presentate come “dolenti interrogativi nei tremiti o negli stupori di un’anima vergine” nell’illusione che questa possa conoscere il significato recondito della vita.
Proprio la lucida consapevolezza dell’impossibilità di essere felici o almeno di non essere infelici dà al canto un tono più pacato e, appunto per questo, altissimo di dolore cocente ma trattenuto, lontano da ogni asprezza polemica.